PENSIERI NELLA STANZA VISIVA

 

Perché mi cattura l'immagine della «stanza visiva» con cui Wittgenstein, nelle Ricerche filosofiche, sigilla la relazione tra il guardare e il comprendere?

Per questa stanza «un fuori non esiste». Essa è una condizione formale del vedere e del riconoscere che  preesiste ai processi mentali del soggetto. Non mi appartiene, ma io appartengo ad essa. In quanto istanza impersonale, mi consente di supporre che il mio sguardo sia comparabile allo sguardo dell'altro e di muovermi in ciò che chiamo certezza del sentire o del vedere o del riconoscere. Nella stanza visiva è possibile localizzare una relazione formale e allo stesso tempo concreta.

Il teatro, questo spazio separato, esclusivo, maniacale del veder agire, funziona come l'incontro tra questo sguardo avulso, che è condizione e stato della mia esperienza, e lo sguardo avulso dell'altro. Operando, dividendo e componendo lo spazio compreso nella stanza visiva, posso presumere di elaborare e comporre lo spazio altro ma omogeneo che è la stanza visiva dove si mostra la mia stanza visiva, e dove, a rigore, si verifica la non-appartenenza dello sguardo.

La comunicazione visiva che si attua nel luogo e nel tempo del teatro si basa su questa drammatica sovrapposizione, non sul semplice passaggio di figure, di corpi, di immagini.

Lavorando sulla stanza che illusoriamente chiamo il mio sguardo, so di intervenire su altre stanze. Ciò che mi appartiene non è la forma della stanza, la condizione della relazione ottica, ma la possibilità di comporre al suo interno le sorprese dell'estasi, della rivelazione.

Ho sempre pensato a un dialogo immaginario, necessario, mai accaduto tra Ejzenštejn e Wittgenstein. Nel dialogo l'artista sostiene, secondo i concetti fondamentali della sua estetica pratica, che il senso delle arti dello spettacolo è l'alterazione dei processi mentali attraverso l'intervento sui meccanismi percettivi. Il filosofo sostiene, per suo conto, che i livelli elementari della comprensione e del riconoscimento del mondo esterno sono preliminari e depositati in una forma della visione che partecipa di una convenzione e preesiste alle singole operazioni mentali. Se penso al loro dialogo come a una contesa, il filosofo vince nel campo degli automatismi, nella fondazione del terreno comune che consente la comunicazione e la relazione tra esperienza e significato. Il maestro dello sguardo che è l'artista vince nella fede della sintesi tra condizioni della percezione e produzione dell'emozione, nella modificazione del nesso tra esperienza e significato. Il territorio di azioni e manufatti che nella nostra cultura chiamiamo arte, riferito alla percezione, è caratterizzato dalla possibilità che coesistano gli automatismi del riconoscere e le tensioni dell'estasi come spostamento cognitivo.

L'idea della stanza ci radica  in una fertile terra di nessuno. Ci dice che il lavoro sullo sguardo comincia nello sguardo, che il lavoro sulla mente passa e opera concretamente nella stanza degli sguardi.

In che misura è possibile parlare del fare teatro come lavoro sullo sguardo restando nell'aura simbolica, nella potenza concettuale di questa stanza? Il teatro non è il campo, il fossile culturale di uno sguardo collettivo abitato, incrostato, assediato da visioni individuali? Non è l'incontro tra una lingua, una norma del guardare  e l'occasione di indurre, provocare il gioco dell'alterazione, di costruire su una forma impersonale la condizione di estasi condivise? È come se nell'epoca delle macchine della visione e della riproduzione dello sguardo, la condizione elementare della stanza visiva sollevi gli spazi contingenti, molteplici del reale su cui interviene l'azione a una condizione formale, a una funzione simile a un culto. Nella coniugazione tra i siti concreti e la stanza visiva, teatro è la cerimonia del passaggio dell'occhio, della coabitazione nella stanza, nella viva e visibile rete degli sguardi possibili.

Vedo, nella metafora della stanza, e nel luogo del teatro, l'amplesso della fedeltà e dell'estraneità, dell'identità e dell'impersonalità, come senso radicale e possibilità estrema del lavoro sullo sguardo.

                                                                                             

Raimondo Guarino